L'ambiente culturale dei giovani a Trieste
Parte II


Segue da "parte I"

Come si caratterizza allora questo rapporto tra fede e vita, e in che cosa consiste l'intoppo?
Sappiamo bene che solo se le fede illumina il quotidiano e se il quotidiano interpella la fede si verifica l'inculturazione.
Sembra invece che nel mondo giovanile contemporaneo non ci sia osmosi tra i due ambiti ma al contrario una più o meno netta separazione. Una cosa è l'esperienza di fede; un'altra è la vita di ogni giorno, con le sue regole, i suoi problemi, le sue abitudini. Se dovessi dare una definizione pungente della realtà giovanile direi che la nostra generazione è tornata ad essere una "generazione del tempio", una generazione che vive la fede in maniera separata dalla vita.
Dico "generazione del tempio" non perché i giovani stiano sempre in chiesa, ma perché vivono l'esperienza di fede come una parentesi - alle volte moto bella - nel fluire della vita quotidiana. La maggior parte dei giovani - qui chiaramente semplifico forse troppo le cose - colleziona belle esperienze, che sollecitano le emozioni e danno entusiasmo; i ritmi sono i più diversi: chi si concede un appuntamento biennale con la GMG, chi uno annuale con i campiscuola estivi, chi uno mensile con qualche proposta della Pastorale Giovanile e via dicendo. Ma tutti aprono semplicemente delle parentesi nella monotonia o anche nel trambusto di ogni giorno. La stessa preghiera è intesa dai più come "il tempo che mi ritaglio per pregare". Un tempo separato appunto. Un tempo in cui chiudo fuori tutto il resto. Se vi è capitato di parlare con qualche giovane della "preghiera continua" avrete probabilmente incontrato un istintivo sguardo perplesso: "E chi ce l'ha il tempo per stare sempre in chiesa?".
La prima difficoltà, che probabilmente rivela anche un deficit di formazione, è allora proprio questa: i tempi della fede e i tempi della vita sono giustapposti, collocati nelle 24 ore in maniera sequenziale ed reciprocamente esclusiva; o studio o prego, o lavoro o prego, o parlo di Cristo o discuto dell'orario di lavoro ecc. Che vita di fede e realtà quotidiana possano coincidere sembra allora effettivamente impossibile. Se è questo il modo di intendere la fede più diffuso, allora è chiaro che momenti di grande trasporto e grande entusiasmo, come gli incontri oceanici, rischiano di aver poco da dire alla ferialità in cui ci si riimmerge ben presto. Rischiano di restare a loro volta dei momenti separati.
Chiaramente questo è un discorso di mentalità. Nessuno nega (anzi!) che la preghiera abbia bisogno dei suoi momenti. Il punto non è qui. Il punto è che nella mentalità diffusa c'è un tempo ed un luogo per la fede e le sue espressioni e c'è un tempo ed un luogo per gli affari che riguardano lo studio ed il lavoro, e questi tempi non sono in continuità tra loro. Hanno regole diverse, richiedono atteggiamenti diversi, impongono parole diverse.
Una delle conseguenze di questa mentalità è il cattivo rapporto con la storia quotidiana. Una vita di fede fatta di episodi, come appunto la partecipazione a incontri particolari, non ha nulla da dire alla realtà di ogni giorno, proprio perché risulta essere qualcosa di radicalmente estraneo. Il risultato è la poca cura per le quotidianità: il tempo feriale diventa spesso un tempo incolore, un riempitivo in attesa del prossimo evento, del prossimo appuntamento. Il tempo feriale è disabitato, e disabitata è la cultura, che infatti cresce nella ferialità, nelle piccole scelte che lasciano il segno, negli atteggiamenti ripetuti con fedeltà costanza. Il disinteresse per il tempo comune ci fa scorgere un'altra caratteristica della "generazione dl tempio": lo stato di attesa. Proprio come lo "standby" dei nostri computer: in attesa di qualcosa di interessante il processore gira al minimo. Tra un appuntamento e l'altro non succede niente. Il ritmo del proprio cammino è scandito da appuntamenti periodici e da più o meno lunghe attese. La conseguenza, sempre a livello di mentalità, è l'incapacità di progettare, di mettersi in atteggiamento costruttivo anziché restare in attesa passiva che capiti qualcosa.

I giovani e la cultura: segue la parte III